martedì 28 giugno 2011

Posetitel Muzeya (Visitor of a museum) di Konstantin Lopushansky


Questo Lopushansky, prima di mettersi in proprio, è stato assistente di produzione per Tarkovskij durante la realizzazione di Stalker ed è evidente che questa esperienza deve averlo influenzato profondamente per quanto riguarda la regia e determinate scelte stilistiche.
Posetitel Muzeya è infatti un'altra camminata in una zona proibita e profondamente degradata, incorniciata da una regia dai tempi estremamente dilatati che sono scanditi da diversi piani sequenza o semplici scene particolarmente distese e silenziose.
Questa "discrezione" del regista è bilanciata dalle alcune caratteristiche che riguardano fotografia e colori. Visitor of a museum è un film così scuro che seguirlo diventa quasi faticoso, nella maggior parte dei casi i lineamenti dei personaggi sono distinguibili solo grazie alla poca luce rossastra delle fiamme accese di fronte alle finestre, e anche quando sono alla luce del sole, le immagini risultano torbide come l'ambiente malsano e tossico in cui si svolgono.
Altra scelta particolarmente straniante è quella di far avvertire al protagonista (rigorosamente senza nome) la presenza dello spettatore o di una qualche presenza che osserva alle sue spalle.
Come in Stalker, il protagonista si muove tra paesaggi desolati e desolanti, ma se nel film di Tarkovskij era la natura con le sue forze misteriose a dominare, qui tutto è immerso nel degrado più totale di una città/società andata in pezzi. Fin da subito il visitatore si muove tra montagne di rifiuti e ammassi di rottami che ricoprono luoghi ormai privi di vita. L'unica popolazione è costituita da pochi individui "normali" e dall'imprecisata massa dei "degenerati", un gruppo di persone deformi e malate nate in seguito alla catastrofe che ha colpito quei luoghi. Queste creature vivono confinate all'interno di riserve e mantengono viva una forma rudimentale di religione il cui unico rito consiste in una preghiera urlata con insistenza dai fedeli: "Lasciami andare via da qui" (via dalla riserva ? da quel mondo ? dalla vita ? non si sa), mentre gli individui normali hanno definitivamente rinunciato alla fede.
La flora e la fauna messe in scena da Lopushansky formano un mondo terribile e deprimente, e i veri volti deformi dei degenerati, le cui mostruosità vengono accentuate dal particolare uso della luce, contribuiscono a rendere Visitor of a museum un film davvero disturbante.
Insomma anche questo Posetitel Muzeya è un film "fantascientifico", ma di quella fantascienza che sfrutta l'etichetta di un genere cinematografico solo per parlare di temi più alti e complessi, la religione e la distruzione dell'ambiente da parte dell'uomo (tema quest'ultimo che ricorre spesso nel cinema di Lopushansky). Forse hanno ragione gli individui rimasti sani, dio non esiste o, se esiste, ha definitivamente voltato le spalle all'uomo e alle sue colpe. Oppure hanno ragione i degenerati, che con la loro primitiva forma di religione credono ancora che dio possa liberarli definitivamente dalle loro pene. Allo spettatore l'ardua sentenza...
Per concludere, non mi ha convinto del tutto. Storia e approccio registico sono interessanti e valgono sicuramente una visione, il resto però non mi pare nulla di eccezionale. A mio avviso la conclusione delude un pò le aspettative e non è all'altezza delle interessanti premesse che si creano nei primi minuti.
La svolta che si verifica nell'ultima parte mi pare piuttosto banale, quindi tutto quello che è successo prima appare improvvisamente sproporzionato e superfluo. Se in Stalker (lo so, probabilmente è ingiusto continuare a paragonarli) le immagini erano sempre appaganti e mai dei vuoti riempitivi, qui alla fine ci si chiede se fosse davvero tutto fondamentale ai fini della narrazione. Forse si poteva sforbiciare qua e la qualche delirio del protagonista o qualche scena notturna.
Comunque pur prendendo una direzione "facile" ha il grande merito di costringere lo spettatore a riflettere, e inoltre riesce a costruire un'ambientazione spaventosamente suggestiva con mezzi estremamente poveri e artigianali.

domenica 26 giugno 2011

Il ragazzo con la bicicletta di Jean Pierre e Luc Dardenne

Vincitore del Grand Prix al 64° Festival di Cannes.
Cyril ha dodici anni e una grande passione per la bicicletta, della madre non veniamo a sapere nulla, il padre (Jérémie Renier, in un ruolo molto simile a quello di L'Enfant) invece lo ha temporaneamente affidato agli educatori di un centro di accoglienza per l'infanzia, in attesa di potersi risollevare economicamente. Un giorno però sparisce senza lasciare notizie, e soprattutto facendo sparire l'amatissima bicicletta di Cyril. Il bambino organizza una serie di fughe per ritrovarlo, e durante una di queste incontrerà la parrucchiera Samantha (Cécile de France) in cui forse potrà trovare una figura materna presente.
I Dardenne tornano a raccontare un mondo di infanzie rubate e piccoli criminali di strada, mettendo al centro della storia il piccolo e testardissimo Cyril, che a causa di un padre immaturo ed egoista è costretto a crescere troppo in fretta, imparando solo dai propri errori. Il personaggio di Samantha quindi non assume il ruolo di una guida e nemmeno quello di una madre amorevole, ma con i suoi gesti disinteressati è l'unica a poter trasmettere a Cyril un pò di fiducia nelle persone.
Il tutto è raccontato con quello stile quasi documentaristico tipico dei due registi belgi, un occhio solo apparentemente distaccato che emoziona, lasciando parlare i personaggi e i gesti quotidiani. All'inizio, lo ammetto, provavo trovavo difficile simpatizzare con il personaggio di Cyril con quel suo carattere così testardo e indisponente, ma poi si prende inevitabilmente coscienza della realtà che lo circonda e si inizia a soffrire per e con lui di fronte alle tante sfide che si trova davanti.
Il ragazzo con la bicicletta ha molte analogie con il già citato L'Enfant e in un certo senso le due opere si completano a vicenda. In entrambe le pellicole le azioni sono messe in moto da una figura paterna impreparata o forse semplicemente inadeguata, a cui si contrappone una figura materna, o comunque femminile, che si dimostra più matura di quella maschile. Ma se in L'Enfant il figlio era una vittima completamente inerme, qui è diventato l'artefice del suo stesso destino. E' Cyril, con la sua incontenibile ostinazione, a imbattersi in Samantha e a sceglierla come madre, ed è sempre lui a mettere il padre di fronte alle sue responsabilità.
Purtroppo però ci sono anche una sceneggiatura deboluccia e dei personaggi un pò troppo in balia degli eventi. In particolare Samantha, che sembra sempre prendere decisioni radicali con troppa leggerezza. Manca di spessore, è generosa e basta. Uno dei punti più bassi del film riguarda proprio una scena con lei e il suo compagno, che quasi di punto in bianco le impone di scegliere tra lui e Cyril.
Non mi ha convinto molto nemmeno l'uso della musica. Il tema orchestrale è molto bello e appropriato, ma praticamente viene usato 3-4 volte per un massimo di tre secondi, di solito dopo che si è chiusa una scena importante. Forse avrei preferito una totale assenza di musiche, anche per coerenza con lo stile registico poco invasivo.

Sarò strano, ma Cécile de France mi piace moltissimo. E' una bellezza molto naturale.

sabato 25 giugno 2011

Giallo di Dario Argento

O forse dovrei dire Giallo/Argento ?
Eh si, perché inspiegabilmente il film uscirà nelle sale italiane il 1 luglio 2011, con un titolo tutto nuovo (forse per sfuggire ai creditori e ad Adrien Brody che sta ancora aspettando di essere pagato...).
Insomma, prima non viene distribuito in Italia, poi i produttori finiscono in tribunale per non aver pagato l'attore protagonista, e infine esce finalmente (si fa per dire) sul mercato home video.
Ora che l'hanno visto tutti,  lo fanno uscire anche nelle sale italiane con una mossa commerciale degna del film.

Io però ho ancora qualche dubbio. Potrebbe essere tutta una bufala, anche perché la locandina è questa:
e il trailer è questo:
Ho dovuto rimuovere il trailer, altrimenti rischiavo di dover pagare 1800€ alla SIAE.

E' tutto troppo brutto per essere vero. Tra una settimana sapremo la verità.


Per l'occasione ripropongo un mio vecchio e sconclusionato commento:

Un grande ritorno ai film brutti per il maestro dell'orrido.
Giallo non è solo un film letteralmente disgustoso ma probabilmente anche il peggiore che questo regista abbia mai girato, eppure non ci sono ne Asia Argento ne Daria Nicolodi, quindi non oso immaginare cos'altro avrebbe potuto tirare fuori.
Rispetto agli ultimi aborti, si tratta di un ritorno al giallo all'italiana, con la classica coppia che indaga su un crimine che in qualche modo coinvolge personalmente uno dei due (in questo caso Emmanuelle Seigner, sorella di una delle vittime).
Ma ecco i problemi: Se i primi gialli di Argento erano almeno ben scritti e originali, questo invece affoga nella più assoluta banalità, insulso a livelli comici.
Lunghi dialoghi portati avanti a monosillabi, pieni di desolanti "Perchè ?", scene brevissime con tagli e inquadrature senza senso, una colonna sonora orchestrale quasi sempre montata in ritardo o in anticipo rispetto alla traccia video.
E infine il cattivo più patetico della storia del cinema, braccato dal peggior detective che si ricordi. Per tutto il film lo spettatore viene portato a sospettare che esista un legame di qualche tipo tra questi due personaggi, perchè i tanti flashback sul loro passato pieno di traumi tendono a confondersi e a somigliarsi, spesso è addirittura difficile capire a chi dei due si riferiscano. Così, visto che il film non ha assolutamente niente da dire, lo spettatore cerca disperatamente una svolta o un colpo di scena rivelatorio (come poi accadeva nei primi gialli argentiani), almeno per poter dire "Azz!" e smettere di ridere per un attimo.
Argento ha provato anche ad infilarci un finale tronco, che fa molto noir europeo, per non scadere nel ridicolo almeno durante conclusione. Invece è così cinematograficamente poco coraggioso che non resiste, e durante i titoli di coda inserisce una scena consolante per riaccendere le speranze nello spettatore, che evidentemente non è ancora pronto a tanta dura realtà.
Le prove dei due attori sono terrificanti, l'unica cosa del film che faccia realmente paura. Emmanuelle Seigner sembra aver compreso il tono dell'opera, quindi offre una grande interpretazione comica e piena di brio. Brody invece si prende proprio sul serio, sembra non rendersi conto della porcata a cui sta partecipando e fa il suo lavoro senza guardare in faccia nessuno, lanciandosi anche in una complessissima e sfaccettata prova attoriale...
Cazzo correte a vederlo, si ride forte e dolorosamente.

giovedì 23 giugno 2011

Zombi 2 di Lucio Fulci


Un anno dopo il successo di Zombi, Lucio Fulci dirige il suo primo horror vero e proprio (prima c'erano stati solo gialli e thriller) che attraverso il titolo cerca di accodarsi al grande successo ottenuto dalla saga di Romero (quando era ancora bella).
Romero e Argento accusarono subito Fulci di plagio, non solo per il titolo ma anche per l'idea stessa dei morti viventi. A quel punto il regista romano rispose alle accuse inviando alla coppia una lista delle decine di film che avevano già portato gli zombi sul grande schermo. Che facce toste!
Comunque per accusare Zombi 2 di aver plagiato Zombi bisognava proprio non averlo visto, perché al contrario del film di Romero, in cui i morti venivano riportati in vita dagli effetti di un virus, in quello di Fulci gli zombi ritornano quelli dell'horror classico (L'isola degli zombies, Ho camminato con uno zombi...) e della tradizione voodoo, una religione nata in America dall'incontro tra i culti pagani degli schiavi neri e la religione Cattolica.
Nel porto di New York compare una misteriosa imbarcazione apparentemente disabitata. Ma durante la perquisizione gli agenti della guardia costiera vengono attaccati da un energumeno orrendamente sfigurato che sembra immune alle pallottole.
Il giornalista Peter West e Anne Bowles (Tisa Farrow, si, proprio la sorella di Mia Farrow), figlia del proprietario della barca, decidono di partire per i Caraibi per scoprire cos'è accaduto al padre della ragazza. Qui riusciranno a raggiungere l'isola di Matul grazie a una coppia di americani, ma la troveranno invasa da un'orda di morti viventi.
Anche l'ambientazione quindi torna quella dei primissimi film zombeschi, inoltre Zombie 2 è completamente sprovvisto dell'ironia e delle critiche alla società contemporanea che caratterizzano ancora oggi i lavori di George Romero.
A parte questo, Zombie 2 non ha nulla da invidiare a Dawn of the dead, il ritmo si mantiene sempre buono, il sangue scorre a fiumi e l'azione caciarona esplode giusto in tempo nel finale, con una lunga sparatoria e una valanga di bottiglie moltov. Naturalmente i trucchi sono uno degli aspetti principali, e anche qui il film riesce a fare la differenza rispetto al "capitolo precedente", il makeup degli attori è infatti molto più grossolano ed esagerato, con una sovrabbondanza di vermi che spuntano da bocche e cavità oculari. Se non dovesse bastare, ci sono anche le bave verdastre dei moribondi, una decina di arti mozzati e qualche serio bagno di sangue. Immagino che all'epoca sia stato una rivoluzione per la quantità di frattaglie mostrate sullo schermo, almeno per quanto riguarda il cinema italiano.
Mi piace molto quell'incipit così laconico nel porto di New York, con la barca alla deriva arrivata da chissà dove, senza nessuno a bordo che possa raccontarlo. Crea un'atmosfera molto suggestiva che purtroppo non viene più raggiunta, se non nelle ultimissime scene.
Sui difetti non mi soffermo, soffre di tutta quella serie di problemi derivanti da un budget striminzito, come l'evidente artigianalità dei trucchi o l'eccessiva didascalicità dei dialoghi.
Memorabili le due scene citatissime e arcinote.
La prima, girata da Giannetto de Rossi, è davvero strana da vedere. Uno zombi in attesa sott'acqua inizia una surreale lotta contro uno squalo, lo morde insistentemente e si fa staccare un braccio, ma alla fine riesce a metterlo in fuga. Non ha senso, ma è geniale.
Nella seconda invece l'occhio di Olga Karlatos viene trafitto da un frammento di legno. Effettivamente la testa dell'attrice è ricostruita molto bene e il bulbo oculare (di plastilina) scoppia in modo davvero naturale. Pare anche che sia stata una scena complicatissima da girare, un giorno di riprese per alternare inquadrature dell'attrice a quelle della testa artificiale. Fulci la ripeterà con qualche variazione in L'aldilà.

Gagliardo anche il tema musicale di Fabio Frizzi.

domenica 19 giugno 2011

The tree of life di Terence Malick

 Questo The Tree of Life mi intimoriva, fin dal primo trailer e dalle risicatissime informazioni che circolavano sulla rete. Mi aspettavo un'opera ermetica e molto personale, che quasi sicuramente avrei faticato ad interpretare. Poco prima della visione ero emozionato e un pò teso, poi parte la prima immagine con la citazione da Giobbe e inizio a pensare che dovrò seguire tutto attentamente per non perdermi nulla, invece inizia il film vero e proprio e già dopo pochi fotogrammi l'occhio è pienamente appagato, così comincio a distendermi e posso godermi pienamente gli scorci suggestivi della provincia americana, o le esplosioni primordiali che hanno originato la vita.
Si potrebbe pensare che The Tree of Life sia un film quasi completamente visivo e visionario, dove la parte narrativa è ridotta all'osso o è composta principalmente di immagini metaforiche, invece una trama c'è e si sviluppa in modo sorprendentemente lineare (in senso buono).
In una delle prime battute, la madre di Jack descrive la differenza tra una via della grazia e una via della natura, così anche la parte centrale del film riproduce questa suddivisione in modo non troppo netto. La grazia si può identificare con la figura della madre, e quindi con tutta la prima parte dell'infanzia di Jack, in cui l'educazione riguarda eclusivamente la figura materna. Qui le immagini sono inevitabilmente più gioiose e luminose.
Di conseguenza la seconda parte può essere accostata alla via della natura, Jack è quasi un adolescente e la fase più critica della sua formazione è un compito che spetta alla brutale figura paterna, un uomo che ha visto infrangere i propri sogni e sente di non avere raggiunto nessun traguardo nella vita. Forse è una mia impressione, ma la fotografia di questa fase mi è sembrata più scura, inoltre la natura assume una dimensione più tetra. Per esempio, il prato rigoglioso su cui Jack giocava con la madre è diventato irregolare e pieno di lacune, ed il padre lo ha trasformato in uno dei tanti strumenti con cui esercitare la sua autorità.
Ho apprezato moltissimo la cura usata nella rappresentazione dell'infanzia e dell'adolescenza, mi è sembrato tutto molto genuino e naturale, dai primi candidi ricordi infantili alle fasi più delicate dell'adolescenza, con la scoperta della morte, la volontà di ribellione, le prime pulsioni sessuali (il furto del vestito) e la presa di coscienza sulla figura del padre.
Nonostante le esperienze diverse, mi sono rivisto in molti episodi della vita di Jack.
Altrettanto curato il contesto storico, un elemento esclusivamente scenografico ma non per questo meno importante, una cornice per gli eventi davvero splendida.
Poi c'è la parte più discussa, la parentesi (o forse è meglio dire le parentesi) sulla nascita della vita sulla terra. E' una parte che anche io fatico ad interpretare in modo soddisfacente, tuttavia non si ha affatto l'impressione che sia inserita forzatamente nella narrazione e non stona in nessun senso con il resto del film.
Secondo me può essere vista come un segno che dio non è un'entità presente e attiva nella vita sulla terra, quanto più uno spettatore passivo o semplicemente qualcosa che si manifesta nella grazia e nella bellezza delle cose, e questo anche alla luce del fatto che l'origine della vita viene rappresentata secondo la teoria evoluzionista. Un pò una risposta alle domande che tormentano il Jack adolescente: dio esiste ? se esiste, perché permette che certe cose terribili accadano ? Una risposta che troverà soltanto da adulto, in quel finale che a mio avviso rappresenta una riconciliazione con il passato e con quanto di positivo esso ha rappresentato per lui.
Insomma tutto il film può essere letto come un meraviglioso inno alla grazia. Una perfetta orchestrazione di immagini, musiche e trama, che si fondono perfettamente e convivono in modo del tutto armonioso. Un'imponente esperienza visiva, ma anche un'epopea familiare di tutto rispetto.
Fantastiche anche le interpretazioni, che in un film del genere tendono ad essere messe in secondo piano dallo spettatore. Jessica Chastain (quale migliore personificazione della grazia ?) è maestosa, una madre autentica sia nei gesti che nelle parole. Gli attori che interpretano i tre figli durante l'adolescenza sono bravissimi, sorprendentemente spontanei per la loro età. Brad Pitt è davvero gelido e convincente, terrificante nelle tesissime cene in famiglia, sgradevole in tutte le altre occasioni (la scena al ristorante con Jack, in cui fa la scemo con la cameriera), anche se ormai ha l'abitudine di recitare con la mascella sporgente, ma perché continua ad imitare Brando ? In questo caso comunque gran parte del merito va al personaggio, il classico padre padrone che opprime i figli con i suoi fallimenti.

La vera meraviglia del film però è Jessica Chastain:

sabato 18 giugno 2011

I guardiani del destino di George Nolfi

Praticamente tutte le trasposizioni di romanzi o racconti di Philip K. Dick hanno una base narrativa potenzialmente ottima, che poi viene sviluppata più o meno bene con risultati cinematografici altalenanti.
Questo The Adjustment Bureau ovviamente non raggiunge i livelli di Blade Runner (nemmeno ci prova) e forse sviluppa una delle idee meno interessanti di Dick, però come film di puro intrattenimento se la cava discretamente. Non rientra nella fantascienza di una volta ma non la butta nemmeno in caciara come ormai capita sempre più spesso. Anzi, si può dire che scene di azione vere e proprie non ce ne siano. Per tutte queste caratteristiche ricorda un pò il recente The Box.
David Norris si candida come senatore nello stato di New York, ma per una serie di ragioni la sua campagna elettorale finisce male e lui perde l'occasione di tutta una vita. A sistemare le cose interviene l'Adjustment Bureau, un'agenzia (?) che agisce nell'ombra per far andare le cose secondo i piani elaborati da un misterioso "presidente". Sono angeli ? Divinità ? Il destino personificato? Nell'economia del film la cosa non ha poi molta importanza, perché il protagonista è David e il suo unico obiettivo è incontrare la donna che ama, a costo di rovinare i piani del destino.
Un uomo normale in una situazione fuori dall'ordinario, quindi niente fughe troppo rocambolesche o sparatorie interminabili, giusto qualche inevitabile corsa attraverso la bellissima Manhattan. Comunque il ritmo regge bene e l'interesse dello spettatore viene tenuto vivo per tutta la durata, fortunatamente senza ricorrere troppo a misteri e colpi di scena, anzi, le informazioni strettamente necessarie vengono rivelate fin da subito, mentre su altri aspetti secondari si sceglie di lasciare un alone di mistero. E poi, come ho già detto, il nucleo narrativo è la storia d'amore tra David ed Elise.
L'unica critica che mi sento di sollevare riguarda il finale, che effettivamente sembra un pò irruento e sbrigativo. L'impressione è che si siano un pò adagiati nella parte centrale, per poi rendersi conto che la cosa andava chiusa in fretta, oppure hanno semplicemente scelto di ravvivare il ritmo per non spompare lo spettatore. Fatto sta che l'ultima sequenza si sviluppa in modo troppo improvviso.
Matt Damon non si smentice, ma nella parte del candidato giovane e impacciato funziona bene. Emily Blunt invece è decisamente più naturale e disinvolta.

sabato 11 giugno 2011

Terrore nello spazio di Mario Bava


















Uno dei primissimi esponenti della fantascienza italiana e il primo e ultimo film fantascientifico di Mario Bava, che però nel '59 aveva curato gli effetti speciali di Caltiki il mostro immortale diretto da Freda.
Terrore nello spazio (Planet of the vampires in America) si ispira al racconto breve Una notte di 21 ore di Renato Pestriniero, e secondo molti ha fortemente ispirato O'Bannon nella sceneggiatura di Alien. Effettivamente i punti in comune sono numerosi ed evidenti: Due astronavi, la Argos e la Galyot, atterrano su un pianeta sconosciuto ricoperto di nebbia (!) da cui proviene un segnale radio indecifrabile (!), ma durante la discesa i membri dei due equipaggi perdono i sensi e, quando si risvegliano, iniziano ad uccidersi l'un l'altro senza motivo. L'equipaggio della Argos viene però salvato dall'intervento del capitano(Barry Sullivan) che è riuscito a rimanere cosciente, ma il deflettore di meteore della nave, indispensabile per viaggiare nello spazio, è andato distrutto. Così i superstiti devono raggiungere la nave gemella per recuperare pezzi di ricambio e ripartire, ma improvvisamente i soldati caduti tornano in vita e iniziano ad uccidere.
Oltre all'incipit e alla morfologia del pianeta, ci sono altri due grossi punti in comune col film di Ridley Scott: I morti resuscitati sono posseduti da forme di vita aliene che possono sopravvivere solo all'interno di un ospite (!). Questi parassiti avevano già attirato altre vittime sul pianeta, e infatti i protagonisti trovano una nave aliena piena di scheletri giganteschi che ricordano parecchio lo space jockey.
La cosa non sorprende troppo, visto che la storia è effettivamente molto valida e ricca di richiami alla fantascienza classica. E poi la particolare conformazione del pianeta, con le sue presenza impalpabili, crea un'atmosfera perfetta.
Quello che sorprende invece è la realizzazione. Bava girò tutto nei teatro 5 di Cinecittà e disponeva come al solito di un budget imbarazzante (e si vede), che se per un horror ad ambientazione domestica può bastare, in un film di fantascienza è invece terribilmente limitativo. Eppure tutto funziona alla grande, le rocce finte sparpagliate sulla scena non vengono mai inquadrate dalla stessa angolazione e vengono spesso spostate, così nonostante tutto si crea una certa varietà nel paesaggio.
Gli interni delle navi sono invece desolanti, pieni di pareti metalliche completamente spoglie, corridoi, stanze vuote, e qualche ingombrante console di comando. Questa freddezza generale caratterizza anche l'interpretazione dei vari protagonisti, che pur non essendo voluta (molti sono dei cani, e il doppiaggio fa il resto) rende molto bene l'idea di una civiltà avanzata liberatasi dal fardello delle emozioni.
Pur dovendosi limitare con le scenografie, Bava riesce comunque a dar prova di grande creatività con i soliti effetti speciali caserecci. Delle gigantesche navi vengono mostrate solo le miniature, mentre quando sono sulla superficie possiamo vederne i giganteschi piedi metallici che tutto sommato riecono a mantenere delle proporzioni credibili. Le colline e le vallate del pianeta sono invece ottenute con delle sovrapposizioni non sempre riuscitissime, e i crateri fumanti sono ricavati da vasche di polenta in ebollizione, illuminate con luci rosse (si polenta, era un trucco usato spesso da Bava). Molto strane ma non troppo ridicole le uniformi degli astronauti, ottenute da delle tutine nere in latex con rifiniture gialle accese (il regista ha richiesto un look che ricordasse le uniformi naziste...).
In conclusione, un film davvero notevole sotto tutti gli aspetti. La conferma che il cinema italiano aveva solo bisogno di attori celebri e budget consistenti, perché la creatività e la voglia di rischiare di certo non mancavano.
Non dico che Bava sia Ridley Scott (nemmeno escludo che avrebbe potuto esserlo) però mi viene naturale chiedermi cosa avrebbe potuto fare nelle stesse condizioni.





Aneddoti divertenti (?): Secondo Lamberto Bava, l'attore Barry Sullivan aveva il brutto vizio di ruttare in continuazione sul set, finché un giorno Mario lo avvicinò e fece un rutto poderoso. Da quel momento in poi Sullivan smise di farlo.
Pare che Vittorio De Sica, impegnato nella produzione di Caccia alla volpe, facesse spesso dei giri sul set per ammirare trucchi e scenografie.

lunedì 6 giugno 2011

Un tranquillo posto di campagna di Elio Petri


















Conosco Petri e l'ho sempre molto apprezzato nei film socialmente più impegnati, eppure non avevo idea che avesse bazzicato anche il genere horror.
Anche in questo caso il regista non perde il suo tocco elegante e riesce persino a fare meglio dei cosiddetti maestri del genere, raccontando una storia totalmente atipica con uno stile modernissimo.
Leonardo Ferri (Franco Nero) è un pittore di arte contemporanea (si, dipinge le solite tele monocromatiche con qualche spugnatura di colore) che da mesi non riesce a creare niente di valido, inoltre soffre di insonnia ed è tormentato da un incubo ricorrente in cui la moglie Flavia (Vanessa Redgrave) lo uccide a coltellate. Anche durante il giorno è sempre più spesso vittima di strane allucinazioni e, quando un pomeriggio vede se stesso dietro il cancello di una vecchia villa, interpreta la cosa come un segno e decide di comprare la proprietà, con l'intenzione di trasferircisi per superare la crisi creativa. Qui viene a conoscenza della storia di Wanda, una contessina veneziana ninfomane, morta in un bombardamento durante la seconda guerra mondiale.
Stimolato dal mistero Leonardo sembra recuperare la sua ispirazione, ma intanto in casa si verificano strani fenomeni e sua moglie Flavia è vittima di continui incidenti.
La storia, apparentemente abbastanza classica, prende da subito una piega assolutamente inedita per l'epoca, riuscendo a superare i soliti cliché in cui sono incappati tanto facilmente i volti più noti dell'horror italico. La violenza, completamente assente sul piano fisico, si manifesta invece su quello psicologico attraverso la follia di Leonardo e l'attrazione sempre più morbosa che sviluppa verso la defunta Wanda. Non una semplice storia di fantasmi ma una vicenda grottesca che per tanti versi ricorda le opere di Roman Polanski.
Innovativo non solo dal punto di vista narrativo ma anche da quello stilistico. L'arte occupa un ruolo fondamentale fin dai titoli di testa, su cui scorrono una serie di opere d'arte contemporanea (ho notato un paio di quadri di Bacon), e influenza esteticamente tutto il film attraverso una serie di scene che spesso ricalcano direttamente dei dipinti celebri (c'è David, Fontana, Magritte, Kleyn, Kounellis...).
 Un rosso nelle sue tinte più accese domina prepotentemente gran parte delle scene, sull'arredamento della modernissima casa di città, nel vino rosso versato sui vecchi pavimenti, nella vernice che ricopre le gigantesche tele di Leonardo. O più palesemente nella scena in cui i tronchi degli alberi che circondano la villa vengono dipinti di rosso. La vernice diventa persino un sostituto del sangue e partecipa alla creazione di una violenza che è sempre e solo illusoria.
Anche la regia è caratterizzata da un ritmo tutto avanguardistico, rapido e pieno di brevi ellissi temporali, incorniciato da un numero altissimo di inquadrature diverse in posizioni bizzarre che creano un costante dinamismo anche nelle scene più statiche. Forse l'unico difetto del film sta proprio in questo eccesso di virtuosismi che però fortunatamente non diventano mai completamente fini a se stessi.
Bravissimo Franco Nero, la sua inquietante glacialità lo aiuta a mettere in scena una convincente forma di pazzia. Sembra davvero un artista viziato incapace di badare a se stesso.
In conclusione un prodotto inspiegabilmente poco conosciuto, superiore a tanti più celebri esponenti del genere. Petri riesce ad anticipare Dario Argento e tutto il filone di thriller metropolitani dalle tinte forti, senza versare una sola goccia di sangue.

I titoli di testa e i dipinti che si vedono nel film sono di Jim Dine, che ha anche istruito Nero su come dipingere.

sabato 4 giugno 2011

Amer di Hélèn Cattet e Guido Forzani


















Interessantissimo progetto belga-francese del 2009, purtroppo passato un pò in sordina o quasi completamente ignorato. Un film difficile da catalogare sotto tutti i punti di vista, per metà è un'esperienza esclusivamente visiva priva di un nucleo narrativo solido, per l'altra metà è un prodotto che si regge interamente sulle citazioni e sugli omaggi al cinema italiano degli anni settanta e ottanta, in particolare al filone horror e a quello "giallo".
Hélèn Cattet e Guido Forzani arrivano freschi freschi dalla realizzazione di cinque cortometraggi, e si vede. Amer(amaro) è infatti suddiviso in tre parti fin dai titoli di testa (che scorrono sullo splendido tema musicale di Cani Arrabbiati di Mario Bava), tre brevi storie unite soltanto dalla presenza della protagonista Ana, ritratta in tre differenti fasi della sua vita: l'infanzia segnata dalla morte del nonno materno, l'adolescenza con la scoperta del proprio corpo e l'esplosione della sessualità, e infine l'età adulta, quando Ana fa ritorno ai luoghi dell'infanzia, nella villa in cui era ambientato il primo segmento.
Da qui la difficoltà di catalogazione, Amer non ha uno sviluppo narrativo lineare, è costituito solo da tre lunghe scene ben isolate tra loro, ed è quasi del tutto privo di dialoghi. Il film dura circa novanta minuti, e Ana pronuncia la sua prima e ultima battuta soltanto dopo la prima ora. Gli altri personaggi sono altrettanto taciturni, e spesso vediamo soltanto i loro occhi che osservano o spiano la protagonista.
Come ho già detto, il primo "cortometraggio" rappresenta l'infanzia di Ana, con una scena che è un grosso omaggio al cinema di Mario Bava e di Dario Argento. La giovane protagonista vive in una villa che ricorda tanto l'accademia di danza in cui è ambientato Suspiria, con lei ci sono sua madre, il nonno appena defunto e una misteriosa donna in nero che si trascina per le stanze ansimando come la mater suspiriorum. Ana sottrae un vecchio orologio dalla salma del nonno, dopodiché viene tormentata per tutta la notte da strane visioni e dalla misteriosa figura in nero che vive nella stanza accanto alla sua e che la spia dalla serratura. Ana cerca conforto nella madre, ma la trova a letto con un giovane ospite.
L'uso dei filtri colorati, l'idea dell'oggetto sottratto a un morto e le musiche elettroniche che riproducono il gocciolio dell'acqua, il trucco improbabile della salma... è tutto un omaggio riuscitissimo all'episodio La Goccia da I tre volti della paura di Mario Bava. Ma a parte i debiti, la scena è molto angosciante e ben realizzata.
Nella seconda scena Ana è un adolescente, e accompagna sua madre dal parrucchiere. L'episodio sembra ispirato alle commedie erotiche italiane e al cinema erotico in generale, sia per le musiche particolarmente frizzanti, sia per le immagini dai colori accesi che ricordano tanto le pubblicità italiane. Il corpo di Ana sta cambiando e lei non tenta di nasconderlo, così la telecamera sbircia tra le pieghe del suo vestito o sotto la gonna troppo corta, un pò come i personaggi maschili che compaiono nella scena. Ancora una volta qualcuno la spia, e ora che è lei ad attirare gli sguardi degli uomini, la madre sembra provare gelosia.
E' un tipo di cinema che non conosco, però mi è sembrata una scena realizzata in modo splendido, con quei primi piani della ragazza che si succhia morbosamente un ciuffo di capelli, mentre sfila sculettando davanti al gruppo di motociclisti allupati. Esteticamente è davvero notevole.
Il terzo episodio rappresenta il ritorno alla villa, e richiama un pò la scena di Profondo Rosso in cui Marcus visita la villa dei fantasmi, inoltre il tutto sembra una citazione da Una lucertola con la pelle di donna di Fulci. Qui Ana, diventata donna, pronuncia la sua unica battuta quando indica all'autista l'indirizzo della villa (l'autoradio trasmette Furore di Adriano Celentano, già sentita in La ragazza che sapeva troppo, sempre di Bava); anche in questo caso è vittima di uno sguardo maschile che sembra quasi spogliarla. L'episodio è una rielaborazione dei traumi precedenti che vengono portati alle loro estreme conseguenze, quindi più che un richiamo agli horror "classici" mi è sembrato un omaggio a quelli più moderni e psicologici.
Notevole la scena dell'omicidio, ricorda il Dario Argento dei primi tempi. L'assassino infatti indossa guanti neri di pelle, e viene ripreso solo sulle mani mentre infierisce sui corpi con un vecchio rasoio. Trucchi artigianali che fanno ancora la loro porca figura, tranne quando li usa Argento...

La struttura esile, che trova sostegno nel citazionismo sfrenato, potrebbe risultare indigesta alla maggior parte degli spettatori, soprattutto a chi non è appassionato del genere o non riesce a cogliere i numerosi riferimenti cinematografici, tuttavia Amer resta un prodotto realizzato con grande cura per i dettagli e uno stile davvero accattivante, ai limiti dell'avanguardistico. L'occhio viene abbondantemente appagato dalla varietà che caratterizza tutto il film e dalla rielaborazione di effetti visivi tipici dell'horror all'italiana, mentre l'orecchio deve solo abituarsi ai lunghi e interminabili silenzi, raramente interrotti da qualche brano di Stelvio Cipriani o Ennio Morricone prelevati direttamente dalla colonna sonora di qualche poliziottesco.
Forse è un pò vittima di se stesso, perché si rivolge a un pubblico molto specifico e perché sceglie di farlo con uno stile davvero coraggioso, ma per quanto mi riguarda mi ha conquistato.

Consigliatissimo.

mercoledì 1 giugno 2011

Il bosco fuori di Gabriele Albanesi


L'orrore... l'orrore...
La peggiore delle vaccate, un film che porta il trash a nuovi e sorprendenti livelli.
Chiaramente è l'opera di un appassionato di horror, uno che si è visto tutte, ma proprio tutte le peggiori cazzate mai uscite senza però imparare assolutamente nulla.
Il bosco fuori è un pò un omaggio a film come Demoni, Phenomena, Non aprite quella porta, e poi... e poi niente, oltre a delle basi e delle fonti di ispirazione non ha assolutamente nulla. Il bosco fuori è assenza di cinema.
Il film comincia con il viaggio in macchina di una famiglia, però si percepisce subito qualcosa di malsano e sbagliato, infatti il padre è Enrico Silvestrin, il figlio indossa un papillon e la macchina è una Lancia.
Comunque l'auto si schianta e il padre muore sul colpo, dopodiché la madre viene investita e assassinata da un individuo misterioso mentre il bambino si da alla fuga.
Memorabile il discorso tra madre e figlio poco dopo l'incidente:
"Giulio dobbiamo chiamare i soccorsi, ma il telefono ha solo una tacca"
E il bambino risponde urlando senza motivo "E PROVA!"
Già qui i dialoghi sorprendono per il loro dinamismo e per la spontaneità con cui gli attori li recitano, ma appena il film ingrana un pò, ci si rende conto di quanto tutto sia tremendamente didascalico ("Hai sonno ? sdraiati sul sedile e mettiti a dormire" "Spostati dalla strada altrimenti le macchine ti investono").
Altra cosa che balza subito all'occhio è l'attenzione ai dettagli. La scena è notturna, ma le luci sono troppe e la loro posizione cambia in continuazione producendo un'illuminazione innaturale, in altre inquadrature invece è evidente che le riprese sono state realizzate di giorno, così la luce notturna viene ricreata abbassando la luminosità della videocamera digitale o con dei pessimi filtri scuri...
Ma andiamo oltre... La scena viene troncata di netto, e senza troppe spiegazioni si passa a una vicenda diversa. Il protagonista è Rino, un ragazzotto con la cinquecento ammaccata che attraverso un flashback ricorda i momenti trascorsi con la sua ex ragazza Aurora. I due erano molto affiatati, infatti nel flashback lui le propone di fare all'amore mentre lei disegna, dopodiché la prende da dietro. Ora lui la va a prendere con il suo bolide e cominciano a litigare perché la relazione è finita, ma poco dopo accostano e trombano. Dai cartelli capiamo che i fatti si svolgono a Grottaferrata.
Qui fanno la loro comparsa 3 personaggi magnifici, i coatti Cesare, Ginger e Diego. Tre energumeni sboccati, strafatti e caricaturali che abbordano la coppietta e tentano di violentare Aurora dopo aver tramortito Rino.
Le scene con loro sono le migliori. Parlano un romanaccio forzato e si insultano per ogni inezia, inoltre si muovono su una Golf dai colori sgargianti ma al suo interno stanno incollati come se fossero in una Smart. Le loro battute memorabili: il sempreverde "A Dié, mavaffanculo và" pronunciato da Cesare e Ginger contemporaneamente, e "A regà, entriamo, violentiamo le donne e ce fregamo i lettori dvd" detto da Cesare poco prima di irrompere nella villa.
Insomma il dinamico trio sta per violentare la donzella, ma proprio al momento giusto compare Antonio, un uomo dal volto di ghiaccio (letteralmente) che salva i due ragazzi e li ospita nella sua villa. In macchina con Antonio c'è sua moglie, che, con la sua voce completamente priva di vita, rassicura Aurora: "Non ti preoccupare, Antonio sistemerà tutto".
A questo punto inzia la pacchia, ma non voglio rivelare troppo: dico solo che Antonio e sua moglie hanno un figlio a cui serve l'apparecchio. Il bambino è di una tristezza indescrivibile, ogni volta che viene inquadrato sembra terribilmente disgustato da qualcosa. Le scene con lui dovrebbero essere inquietanti, invece sono le più esilaranti. In pratica ammazza l'atmosfera.
Poi ci sono altri due personaggioni, i redneck Osvaldo ed Emidio. Il primo ha una specie di ustione che gli deturpa una metà del viso, il secondo ha un gigantesco tumore sulla clavicola. Non parlano, ma i loro sguardi dicono tutto... Il resto lo fanno le loro orrende risate convulse.
La storia insomma strapuzza di vecchio, anzi di cadavere, ma la realizzazione fa così pena che mi guardo bene anche dal considerarlo un buon omaggio.
Il finale, con il suo colpo di scena (?), è la degna conclusione di quella che è a tutti gli effetti una commedia demenziale.
Questa fucina di idee si fa notare anche per la realizzazione tecnica. Intanto c'è la macchina digitale, che rende l'orrendo ancor più orrendo. Poi ci sono una serie di terribili zoom alla Mario Bava sui volti dei personaggi, però i tempi sono tutti sbagliati e la telecamera ondeggia e tremola come una pazza. Infine, oltre ai già citati errori con le luci, ci sono una lunga lista di inquadrature involontariamente comiche o semplicemente brutte.
Si potrebbero salvare i trucchi e gli effetti speciali di Sergio Stivaletti, che tutto sommato non sono da buttare, ma purtroppo la realizzazione delle scene e la recitazione da cortometraggio amatoriale rovinano tutto il rovinabile. Gli attori non solo hanno le voci e le facce sbagliate, ma si muovono anche in modo ridicolo durante le fasi cruciali, non sono capaci nemmeno di morire o cadere in modo dignitoso.

Comunque vi consiglio di recuperarlo. Si ride di gusto.
Il bosco fuori è uno di quei film che bisognerebbe far vedere a chiunque ti dice "Il problema del cinema italiano è che non si da spazio a registi esordienti". Il sonno della ragione genera mostri.